Un esempio di analisi del testo proposto come test d'ingresso al Liceo Daniele Crespi di Busto Arsizio.
Leggi il testo che segue e rispondi alle domande (una possibile soluzione cliccando il pulsante show/hide).
Cesare Pavese, La luna e i falò
C’è
una ragione perché sono tornato in questo paese, qui e non invece a Canelli, a
Barbaresco o in Alba. Qui non ci sono nato, è quasi certo; dove son nato non lo
so; non c’è da queste parti una casa né un pezzo di terra né delle ossa ch’io
possa dire "Ecco cos’ero prima di nascere". Non so se vengo dalla
collina o dalla valle, dai boschi o da una casa di balconi. La ragazza che mi
ha lasciato sugli scalini del duomo di Alba, magari non veniva neanche dalla
campagna, magari era la figlia dei padroni di un palazzo, oppure mi ci hanno
portato in un cavagno da vendemmia due povere donne da Monticello, da Neive o
perché no da Cravanzana. Chi può dire di che carne sono fatto? Ho girato
abbastanza il mondo da sapere che tutte le carni sono buone e si equivalgono,
ma è per questo che uno si stanca e cerca di mettere radici, di farsi terra e
paese, perché la sua carne valga e duri qualcosa di più che un comune giro di
stagione.
Se sono cresciuto in questo paese, devo dir grazie alla Virgilia, a Padrino, tutta gente che non c’è più, anche se loro mi hanno preso e allevato soltanto perché l’ospedale di Alessandria gli passava la mesata. Su queste colline quarant’anni fa c’erano dei dannati che per vedere uno scudo d’argento si caricavano un bastardo dell’ospedale, oltre ai figli che avevano già. C’era chi prendeva una bambina per averci poi la servetta e comandarla meglio; la Virgilia volle me perché di figlie ne aveva già due, e quando fossi un po’ cresciuto speravano di aggiustarsi in una grossa cascina e lavorare tutti quanti e star bene. Padrino aveva allora il casotto di Gaminella - due stanze e una stalla - la capra e quella riva dei noccioli. Io venni su con le ragazze, ci rubavamo la polenta, dormivamo sullo stesso saccone, Angiolina la maggiore aveva un anno più di me; e soltanto a dieci anni, nell’inverno quando morì la Virgilia, seppi per caso che non ero suo fratello.
Se sono cresciuto in questo paese, devo dir grazie alla Virgilia, a Padrino, tutta gente che non c’è più, anche se loro mi hanno preso e allevato soltanto perché l’ospedale di Alessandria gli passava la mesata. Su queste colline quarant’anni fa c’erano dei dannati che per vedere uno scudo d’argento si caricavano un bastardo dell’ospedale, oltre ai figli che avevano già. C’era chi prendeva una bambina per averci poi la servetta e comandarla meglio; la Virgilia volle me perché di figlie ne aveva già due, e quando fossi un po’ cresciuto speravano di aggiustarsi in una grossa cascina e lavorare tutti quanti e star bene. Padrino aveva allora il casotto di Gaminella - due stanze e una stalla - la capra e quella riva dei noccioli. Io venni su con le ragazze, ci rubavamo la polenta, dormivamo sullo stesso saccone, Angiolina la maggiore aveva un anno più di me; e soltanto a dieci anni, nell’inverno quando morì la Virgilia, seppi per caso che non ero suo fratello.
Da quell’inverno Angiolina giudiziosa dovette
smettere di girare con noi per la riva e per i boschi; accudiva alla casa,
faceva il pane e le robiole, andava lei a ritirare in municipio il mio scudo;
io mi vantavo con Giulia di valere cinque lire, le dicevo che lei non fruttava
niente e chiedevo a Padrino perché non prendevamo altri bastardi. Adesso sapevo
ch’eravamo dei miserabili, perché soltanto i miserabili allevano i bastardi
dell’ospedale. Prima, quando correndo a scuola gli altri mi dicevano bastardo,
io credevo che fosse un nome come vigliacco o vagabondo e rispondevo per le
rime.
Ma ero già un ragazzo fatto e il municipio non ci pagava più lo scudo, che io ancora non avevo ben capito che non essere figlio di Padrino e della Virgilia voleva dire non essere nato in Gaminella, non essere sbucato da sotto i noccioli o dall’orecchio della nostra capra come le ragazze. L’altr’anno, quando tornai la prima volta in paese, venni quasi di nascosto a rivedere i noccioli. La collina di Gaminella, un versante lungo e ininterrotto di vigne e di rive, un pendio così insensibile che alzando la testa non se ne vede la cima - e in cima, chi sa dove, ci sono altre vigne, altri boschi, altri sentieri - era come scorticata dall’inverno, mostrava il nudo della terra e dei tronchi.
La vedevo bene, nella luce asciutta, digradare gigantesca verso Canelli dove la nostra valle finisce. Dalla straduccia che segue il Belbo arrivai alla spalliera del piccolo ponte e al canneto. Vidi sul ciglione la parete del casotto di grosse pietre annerite, il fico storto, la finestretta vuota, e pensavo a quegli inverni terribili. Ma intorno gli alberi e la terra erano cambiati; la macchia dei noccioli sparita, ridotta una stoppia di meliga. Dalla stalla muggì un bue, e nel freddo della sera sentii l’odore del letame. Chi adesso stava nel casotto non era dunque più così pezzente come noi. M’ero sempre aspettato qualcosa di simile, o magari che il casotto fosse crollato; tante volte m’ero immaginato sulla spalletta del ponte a chiedermi com’era stato possibile passare tanti anni in quel buco, su quei pochi sentieri, pascolando la capra e cercando le mele rotolate in fondo alla riva, convinto che il mondo finisse alla svolta dove la strada strapiombava sul Belbo.
Ma non mi ero aspettato di non trovare più i noccioli. Voleva dire ch’era tutto finito. La novità mi scoraggiò al punto che non chiamai, non entrai sull’aia. Capii lì per lì che cosa vuol dire non essere nato in un posto, non averlo nel sangue, non starci già mezzo sepolto insieme ai vecchi, tanto che un cambiamento di colture non importi. Certamente, di macchie di noccioli ne restavano sulle colline, potevo ancora ritrovarmici; io stesso, se di quella riva fossi stato il padrone, l’avrei magari roncata e messa a grano, ma intanto adesso mi faceva l’effetto di quelle stanze di città dove si affitta, si vive un giorno o degli anni, e poi quando si trasloca restano gusci vuoti, disponibili, morti.
Ma ero già un ragazzo fatto e il municipio non ci pagava più lo scudo, che io ancora non avevo ben capito che non essere figlio di Padrino e della Virgilia voleva dire non essere nato in Gaminella, non essere sbucato da sotto i noccioli o dall’orecchio della nostra capra come le ragazze. L’altr’anno, quando tornai la prima volta in paese, venni quasi di nascosto a rivedere i noccioli. La collina di Gaminella, un versante lungo e ininterrotto di vigne e di rive, un pendio così insensibile che alzando la testa non se ne vede la cima - e in cima, chi sa dove, ci sono altre vigne, altri boschi, altri sentieri - era come scorticata dall’inverno, mostrava il nudo della terra e dei tronchi.
La vedevo bene, nella luce asciutta, digradare gigantesca verso Canelli dove la nostra valle finisce. Dalla straduccia che segue il Belbo arrivai alla spalliera del piccolo ponte e al canneto. Vidi sul ciglione la parete del casotto di grosse pietre annerite, il fico storto, la finestretta vuota, e pensavo a quegli inverni terribili. Ma intorno gli alberi e la terra erano cambiati; la macchia dei noccioli sparita, ridotta una stoppia di meliga. Dalla stalla muggì un bue, e nel freddo della sera sentii l’odore del letame. Chi adesso stava nel casotto non era dunque più così pezzente come noi. M’ero sempre aspettato qualcosa di simile, o magari che il casotto fosse crollato; tante volte m’ero immaginato sulla spalletta del ponte a chiedermi com’era stato possibile passare tanti anni in quel buco, su quei pochi sentieri, pascolando la capra e cercando le mele rotolate in fondo alla riva, convinto che il mondo finisse alla svolta dove la strada strapiombava sul Belbo.
Ma non mi ero aspettato di non trovare più i noccioli. Voleva dire ch’era tutto finito. La novità mi scoraggiò al punto che non chiamai, non entrai sull’aia. Capii lì per lì che cosa vuol dire non essere nato in un posto, non averlo nel sangue, non starci già mezzo sepolto insieme ai vecchi, tanto che un cambiamento di colture non importi. Certamente, di macchie di noccioli ne restavano sulle colline, potevo ancora ritrovarmici; io stesso, se di quella riva fossi stato il padrone, l’avrei magari roncata e messa a grano, ma intanto adesso mi faceva l’effetto di quelle stanze di città dove si affitta, si vive un giorno o degli anni, e poi quando si trasloca restano gusci vuoti, disponibili, morti.
Meno male che quella sera
voltando le spalle a Gaminella avevo di fronte la collina del Salto, oltre
Belbo, con le creste, coi grandi prati che sparivano sulle cime. E più in basso
anche questa era tutta vigne spoglie, tagliate da rive, e le macchie degli
alberi, i sentieri, le cascine sparsi erano come li avevo veduti giorno per
giorno, anno per anno, seduto sul trave dietro il casotto o sulla spalletta del
ponte. Poi, tutti quegli anni fino alla leva, ch’ero stato servitore alla
cascina della Mora nella grassa piana oltre Belbo, e Padrino, venduto il
casotto di Gaminella, se n’era andato con le figlie a Coss`ano, tutti quegli
anni bastava che alzassi gli occhi dai campi per vedere sotto il cielo le vigne
del Salto, e anche queste digradavano verso Canelli, nel senso della ferrata,
del fischio del treno che sera e mattina correva lungo il Belbo facendomi
pensare a meraviglie, alle stazioni e alle città.
Così questo paese, dove non
sono nato, ho creduto per molto tempo che fosse tutto il mondo. Adesso che il
mondo l’ho visto davvero e so che è fatto di tanti piccoli paesi, non so se da
ragazzo mi sbagliavo poi di molto. Uno gira per mare e per terra, come i
giovanotti dei miei tempi andavano sulle feste dei paesi intorno, e ballavano,
bevevano, si picchiavano, portavano a casa la bandiera e i pugni rotti. Si fa
l’uva e la si vende a Canelli; si raccolgono i tartufi e si portano in Alba. C’è Nuto, il mio amico del Salto, che provvede di bigonce e di torchi tutta la
valle fino a Camo.
Che cosa vuol dire? Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti. Ma non è facile starci tranquillo. Da un anno che lo tengo d’occhio e quando posso ci scappo da Genova, mi sfugge di mano. Queste cose si capiscono col tempo e l’esperienza. Possibile che a quarant’anni, e con tutto il mondo che ho visto, non sappia ancora che cos’è il mio paese?
Che cosa vuol dire? Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti. Ma non è facile starci tranquillo. Da un anno che lo tengo d’occhio e quando posso ci scappo da Genova, mi sfugge di mano. Queste cose si capiscono col tempo e l’esperienza. Possibile che a quarant’anni, e con tutto il mondo che ho visto, non sappia ancora che cos’è il mio paese?
C’è qualcosa che non mi
capacita. Qui tutti hanno in mente che sono tornato per comprarmi una casa, e
mi chiamano l’Americano, mi fanno vedere le figlie. Per uno che è partito senza
nemmeno averci un nome, dovrebbe piacermi, e infatti mi piace. Ma non basta. Mi
piace anche Genova, mi piace sapere che il mondo è rotondo e avere un piede
sulle passerelle.
Da quando, ragazzo, al cancello della Mora mi appoggiavo al badile e ascoltavo le chiacchiere dei perdigiorno di passaggio sullo stradone, per me le collinette di Canelli sono la porta del mondo. Nuto che, in confronto con me, non si è mai allontanato dal Salto, dice che per farcela a vivere in questa valle non bisogna mai uscirne. Proprio lui che da giovanotto è arrivato a suonare il clarino in banda oltre Canelli, fino a Spigno, fino a Ovada, dalla parte dove si leva il sole. Ne parliamo ogni tanto, e lui ride.
Da quando, ragazzo, al cancello della Mora mi appoggiavo al badile e ascoltavo le chiacchiere dei perdigiorno di passaggio sullo stradone, per me le collinette di Canelli sono la porta del mondo. Nuto che, in confronto con me, non si è mai allontanato dal Salto, dice che per farcela a vivere in questa valle non bisogna mai uscirne. Proprio lui che da giovanotto è arrivato a suonare il clarino in banda oltre Canelli, fino a Spigno, fino a Ovada, dalla parte dove si leva il sole. Ne parliamo ogni tanto, e lui ride.
A. Comprensione del testo
A2 In una breve descrizione ricostruisci i luoghi evocati
A3 Perché il protagonista è scoraggiato e non entra sull’aia?
A4 Che cosa poi lo rincuora e perché?
A5 Spiega le riflessioni del protagonista presenti nel penultimo capoverso da "Così questo paese…a che cos’è il mio paese"
A6 Quali differenze cogli tra il protagonista e Nuto che compare alla fine del brano
B. Riflessioni sulla lingua
B1Analizza le forme verbali sotto elencate indicando: modo, tempo, forma attiva/passiva, transitivo/intransitivo --->TORNAI, ANDANDO, FOSSE CROLLATO, ERA ANDATO, SAPPIA
B2Fai l'analisi logica della frase "Dalla stalla muggì un bue.."
B3 A quali complementi corrispondono le espressioni sottolineate? …se n’era andato con le figlie
a Cossano
B4 Svolgi l’analisi del periodo (dividi le proposizioni e indica il tipo di ognuna)
"La novità mi scoraggiò al punto che non chiamai, non entrai sull’aia."
B5 Che tipo di proposizione è quella sottolineata? C’è Nuto, il mio amico del Salto, che provvede di bigonce e di torchi tutta la valle fino a Camo.
B5 Spiega il significato dei seguenti vocaboli nel contesto in cui sono inseriti-->SCORTICATA, STOPPIA, PIANA, PERDIGIORNO
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